L’incontro tra Giordano Bruno e William Shakespeare avvenne tra l’aprile del 1583 e l’ottobre del 1585: una circostanza che segnerà entrambi e che troverà riscontro nell’opera dell’inglese Pene d’amor perdute.

Esistono “nodi” della storia che non riguardano guerre, rivoluzioni, carestie o trattati sovrani, che non esaltano dinastie o popoli, ma che si dipanano magari nel silenzio di una stanza, nell’incontro tra due cuori autentici. E, talvolta, trasformano ben più della politica.

È il caso dell’incontro tra Giordano Bruno e William Shakespeare, tra l’aprile del 1583 e l’ottobre del 1585, una circostanza che segnerà entrambi, e che troverà riscontro nell’opera dell’inglese Pene d’amor perdute. Un evento che presenta comunque un fascino particolare, carico com’è di richiami filosofici, poetici e spirituali.

Shakespeare era un teatrante già famoso all’epoca in cui Giordano Bruno, sospinto dalle polemiche suscitate dalle sue idee assolutamente non in linea con il sapere comune dell’epoca, non meno che dal suo carattere provocatorio, non poteva sopportare gli stupidi e non lo mandava loro a dire, giunse in Inghilterra, dove la fama del poeta solleticò la sua curiosità e suscitò in lui il desiderio di cercare l’uomo che più tardi avrebbe scritto versi come:

“…la vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla” (Macbeth).

Chiamare “curiosità” l’impulso che indusse il Nolano a recarsi, attraversando le viuzze londinesi, fino al teatro dove Shakespeare aveva una sorta di quartier generale, è quantomeno riduttivo. Si trattava piuttosto di traenza, il seguire ciò che nasce dalla parte più profonda di sé, la capacità di ascolto di quella voce interiore che contraddistingue certi individui “speciali”. Bruno andava incontro a un essere che lo stava aspettando, che lo avrebbe capito, che da quel momento in poi avrebbe cambiato la propria vita e il proprio poetare, proprio come accade a un discepolo.

Questa affermazione, che può sembrare un po’ ardita, è dettata dalla sensazione che le opere di Shakespeare, più di quelle di altri pur eccelsi autori, siano frutto di ben più che una sensibilità eccezionale, piuttosto paiono rispecchiare profondi insegnamenti e la conoscenza delle cose del mondo e dei mondi, che definiremmo “schegge” di Conoscenza occulta.

Basterebbe osservare quanto Shakespeare sia stato in grado di evolvere durante la sua carriera artistica. Alla fine del XVI secolo egli aveva scritto all’incirca ventidue drammi. Fra questi alcuni, come Romeo e Giulietta e Sogno di una notte di mezza estate, lasciano presagire la maturità espressiva, poetica e conoscitiva delle tragedie maggiori (Amleto, Re Lear, Macbeth, per citare solo le più note).

Non si può avere alcun dubbio, infatti, riguardo al fatto che fin da giovanissimo Shakespeare conoscesse le varie dottrine, alcune delle quali veramente esoteriche, altre semplicemente occultistiche, che interessavano appassionatamente i drammaturghi londinesi, nonché quegli aristocratici che li mantenevano, proteggevano e incoraggiavano.

Sappiamo che in quel periodo storico l’eredità mistica medievale si era arricchita di varie correnti – pitagorica, platonica, cabalistica, ermetica, rosacruciana e alchemica – e che, ai margini di queste, vi erano l’astrologia e la magia. Questa sorta di innesto conoscitivo era avvenuto per merito di tutti coloro che, a prezzo di grandi sofferenze e spesso della loro stessa vita, avevano avuto il coraggio di mettersi contro la Santa Romana Chiesa. Di costoro Giordano Bruno fu, probabilmente, il più eminente e il più consapevole, anche se, forse, il più difficile da comprendere.

L’incontro fra questi due esseri, l‘uno con il potere della Conoscenza e il sacro fuoco del Vero, l’altro con il magico dono di materializzare con la Parola ciò che sta in alto e farlo scendere sulla Terra, non poteva che sfociare in quel grande servizio al­l’umanità che sono i drammi di Shakespeare. Egli vide Bruno e comprese che qui tutto è illusione, e volle che anche altri lo comprendessero:

“…i nostri svaghi sono finiti. Questi nostri attori, come già vi ho detto, erano tutti degli spiriti, e si sono dissolti in aria, in aria sottile. Così come il non fondato edifizio di questa visione, si dissolveranno le torri, le cui cime toccano le nubi, i sontuosi palazzi, i solenni templi, lo stesso immenso globo e tutto ciò che esso contiene e, al pari di questo incorporeo spettacolo svanito, non lasceranno dietro di sé la più piccola traccia. Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno…” (La Tempesta).

Un bel capitolo su questo evento si può leggere nel classico di Gabriele La Porta Giordano Bruno. Vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero. La Porta ne fa un momento intenso attraverso un’interpretazione della figura del Bruno collegata a quella tradizione platonica che distingue tra il pensiero pubblico del Maestro, quello divulgato attraverso le sue opere letterarie, e la “vera” dottrina, che viene rivelata solo a una ristretta cerchia di iniziati. Un’interpretazione che ha sollevato le critiche degli esegeti del Nolano, ma che piace più di ogni altra.

Le opere di Giordano Bruno, senza considerarle solo libri o documenti da commentare, rappresentano perle di coraggio e passione, che il nostro cuore di uomini moderni dovrebbe custodire come doni di integrità e bellezza.


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